~TokioHotel's Fan Fictions~

IV capitolo, I parte

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Dollars1995
view post Posted on 4/6/2011, 21:05




Hush



Autore: Dollars1995
Titolo: Hush
Rating:R
Avvisi: Adult Contenent, Blood, Death Fic, Crossdressing, language, violence.
Genere: Romantico (solo in alcuni punti), Horror
Riassunto:

Prese la busta e fece schioccare la lingua in direzione della donna.
«Ci si vede tesoro.»
Un piercing alla lingua.


Licenza Creative Commons
Hush (Loveletter) by Dollars1995 is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported License.
Based on a work at dollars1995.wordpress.com.





IV.I Capitolo

.

••Kelsey••




Kelsey era sempre stata una ragazzina un po’ troppo sulle sue, eppure risultava simpatica a tutti già dalla prima occhiata. La maggior parte della gente affermava che erano i suoi occhi a fare il tutto, perennemente sorridenti ed innocenti. La verità era che si era promessa di non essere come sua madre, triste e monotona come una giornata uggiosa. Non era mai riuscita a capire come avesse fatto suo padre ad innamorarsene. L’unica cosa che sembrava ridarle vita – perché sperava almeno che non fosse stata sempre così – era cantare.

La mattina la ragazzina veniva svegliata alle sei e trenta circa dalla voce della donna che cantava un’antica ninna nanna. Rimaneva in silenzio, lunga sul letto ad ascoltare quella dolce melodia che per dieci minuti riempiva la casa.

Verso le sei e quaranta si alzava, si vestiva ed andava a fare colazione in cucina dove, in un piattino sopra al tavolo, l’attendevano un bicchiere di succo d’arancia, uno di latte, pane, formaggio ed una mela per la scuola. Prendeva la borsa e si dirigeva a piedi in paese. Durante tutta la mattinata non vedeva mai la madre tranne quando usciva di casa e l’altra, dalla porta della cucina, la salutava.

La scuola era un edificio bianco sporco con cinque aule in tutto, riservata a persone che potevano permettersi di sostenere il pagamento di una retta abbastanza alta. La famiglia di Kelsey non era povera, ma nemmeno molto ricca, chi la manteneva negli studi era invece la zia Gert, una cugina della madre che abitava in Francia e che, una volta al mese, le mandava i soldi per la scuola. Sposata ma senza nessun figlio, si era legata alla nipotina sin da quando l’aveva vista tra le braccia dei genitori e aveva provveduto alla sua istruzione fin da quando frequentava le classi elementari.

Kelsey entrava in classe, si sedeva al suo banco ed aspettava l’arrivo dell’insegnante assieme alle sue compagne che parlottavano tra loro e non la vedevano molto di buon’occhio in quanto figlia di una contadina. Quella era una scuola completamente femminile e tutte erano provenienti da famiglie bene agiate che non osavano far mettere piede alle proprie figlie nelle scuole pubbliche.

Non era ancora riuscita a stringere una vera amicizia in quanto non ci teneva a mettersi al fianco una persona con la puzza sotto al naso. Preferiva di gran lunga una persona semplice, un po’ come lei, che amasse i fiori e che si perdesse nelle pagine fittamente scritte dei romanzi di Salgari o magari di Victor Hugo.

Di qualcuno del genere lì, non ce n’era nemmeno l’ombra.

Come la professoressa entrava cessavano i risolini, tutte accorrevano al proprio posto e la salutavano educatamente.

Kelsey si concentrava al massimo nelle lezioni ed i risultati si vedevano. Non era decisamente nel suo stile deludere le persone e lei di certo non poteva ripagare la zia oziando dalla mattina alla sera, anche perché era stata chiara: ou d'études ou d'aller travailler avec votre mère, o studi o vai a lavorare con tua madre. Aveva dunque scelta ?

Durante la pausa le ragazze erano lasciate libere di uscire dall’edificio scolastico. Di fronte alla porta d’ingresso, dall’altra parte della strada, c’era una bancarelle di fiori che faceva bella mostra di sé con le sue rose e le sue margherite, dal bianco al rosso scarlatto.
Al suo fianco si erigeva un palazzo dove vivevano prevalentemente commercianti ed impiegati di banca. Era un palazzo costruito qualche anno prima e quindi ancora in buone condizioni, a differenza delle decine di altri condomini in stati decisamente peggiori.

Attaccato c’era un piccolo bar. Non era mai molto affollato ma qualche cliente l’avevano sempre, tranne durante il periodo estivo in cui la gente prendeva letteralmente d’assalto il reparto gelateria.

Ogni giorno, puntualmente, Kelsey, durante quei quindici minuti di pausa, usciva. Si dirigeva inizialmente alla bancarella dei fiori per scambiare quattro chiacchiere con l’anziana proprietaria che ancora non si decideva a chiudere bottega e ad andare in pensione; poi passava al bar dove prendeva un bicchiere d’acqua e dava un saluto alla barista, e si dirigeva ai giardinetti adiacenti la scuola, proprio di fronte al locale. Lì si sedeva sull’altalena, tirava fuori la sua mela e mangiava.

Aspettava un gruppetto di ragazzi che, solitamente a quell’ora, andava al bar, prendevano qualcosa e si sedevano ad un tavolino all’esterno.

Kelsey, nascosta dagli alberi e dai cespugli, li spiava con occhi tristi. Li osservava ridere e scherzare tra di loro, parlare di film e di libri. Alcune volte li sentiva cantare ed allora lei si sedeva a terra, portandosi le ginocchia al petto ed iniziava a piangere, pensando a come sarebbe stata la sua vita se suo padre non fosse morto, e soprattutto a come sarebbe stata sua madre.

Alle due, con la borsa in spalla, si rimetteva in cammino per tornare a casa. Percorreva per un buon quarto d’ora la via principale e poi svoltava a destra, nella piccola via in cui abitava. Alcune volte però cambiava tragitto ed allora si fermava a casa di una sua compagna delle elementari che adesso era costretta dai genitori a studiare a casa privatamente con un insegnante che non le stava affatto simpatico e che oltretutto era un vecchio bacucco con i capelli bianchi.

Sua madre non aveva mai visto di buon occhio quella bambina e più volte era capitato che la sgridasse per il semplice fatto di giocare assieme a lei. Diceva che lei era una riccona, che per Kelsey era una cosa umiliante stare a contatto con lei e sciocchezze varie. Inizialmente la bambina non capiva il perché del comportamento della mamma e poi crescendo aveva semplicemente smesso di darle retta. Per lei quella di sua madre semplicemente era tutta invidia.

Quando passava da quella ragazza, Meredith, le offriva sempre un panino al prosciutto dato che sapeva che lo adorava e poi passavano due ore intere a leggere o a discutere di cosa avevano fatto durante la settimana. Avevano un giorno preciso per incontrarsi, il venerdì, l’ultimo giorno di scuola della settimana.

Solitamente tornava a casa verso le due e mezza, due e tre quarti e trovava sua madre che la aspettava seduta al tavolo della cucina, che preparava i piatti per il pranzo. Nonostante non avessero chissà quale rapporto stretto, ci tenevano entrambe a mangiare insieme, dato che nella famiglia non c’era più nessun altro erano del parere che quel piccolo nucleo che formavano dovessero mantenerlo non saldo, però abbastanza unito.

Durante il pasto parlavano per lo più della scuola di Kelsey. Quello era più che altro l’unico argomento del quale discutevano. A volte la ragazza sentiva la madre lontana mille miglia da dove si trovava lei, le sembrava quasi che avesse paura ad avvicinarsi a sua figlia.

Il pomeriggio faceva i compiti oppure una passeggiata nei campi fioriti, tappezzati di rosso, bianco e giallo. Nonostante fosse inverno c’erano alcuni fiori che resistevano anche al freddo e riuscivano a mostrare al mondo intero la propria bellezza.

Dopo la cena, verso le nove e mezza, le dieci, Kelsey andava a dormire, ansiosa del canto mattutino di sua madre.

Nel 1972 successe qualcosa che nessuno si sarebbe mai aspettato. La scuola, che sin dall’inizio era sempre stata una scuola esclusivamente femminile, iniziò ad ospitare anche sezioni maschili. Fin lì non ci fu niente di strano, se non fosse stato per il fatto che, il primo giorno di scuola dopo le vacanze estive, la direttrice entrò nell’aula di Kelsey. Tutte le ragazze, di sedici-diciassette anni, stavano facendo baldoria, si raccontavano cosa avevano fatto in quei mesi e si scambiavano i più svariati pettegolezzi. Contemporaneamente si girarono verso la porta che si era aperta improvvisamente e sbiancarono. La preside le stava guardando truce.

Quella mattina Kelsey aveva fatto tardi perché pioveva, segno che non sarebbe andata molto bene. Credeva in quelle cose. La madre l’aveva sempre presa per una stupida e non perdeva occasione per farglielo notare. La ragazza subiva in silenzio e la lasciava parlare.

Arrivò a scuola che erano circa le otto e mezza e dovette passare in presidenza. Bussò e sentì una voce che diceva “avanti”. Timidamente entrò e notò una grande agitazione all’interno della direzione.

Ricevette il foglietto per entrare in classe e si diresse verso la sua aula.

Quell’estate era cambiata: i corti capelli castani erano diventati lunghi e più chiari, con riflessi ramati, gli occhi marroni erano contornati da una sottile linea nera e le labbra, che prima erano sempre screpolate e secche, adesso erano lisce e lucide. Dal suo scarso metro e sessantatre era arrivata ad un metro e sessantasette.

Camminava a passo spedito lungo il corridoio mentre sentiva le voci delle professoresse interpellare gli alunni e talvolta intravedeva anche ragazzi, non ragazze, che guardavano con aria annoiata fuori dalla classe e la squadravano da capo a piedi. Allora lei abbassava la testa e continuava facendo finta di nulla anche se sulle gote si intravedeva un dolce rossore.

Si stava domandando da dove fossero spuntati quei ragazzi quando bussò sulla porta della propria aula. Entrò e ciò che vide la lasciò al quanto perplessa. Cosa diavolo ci facevano cinque maschi in una classe completamente femminile?

Si sentiva gli occhi di tutte le sue compagne e anche degli altri addosso e la cosa le dava davvero molto fastidio. Spostò lo sguardo per tutta l’aula e notò che i ragazzi erano tutti seduti in prima fila, mentre le altre dietro sghignazzavano tra di loro di non sapeva quale argomento.

«Signorina Braun, potrebbe darmi il foglietto per favore?»

A quelle parole la Kelsey venne ricatapultata nella sua classe. Allungò la mano verso la cattedra e passò all’insegnante quel pezzetto di carta.

Nel frattempo aveva individuato quello che sarebbe diventato il suo posto per il resto dell’anno. Era l’unico vuoto, in seconda fila, dietro ad un tizio dai capelli mori, lisci e decisamente abbronzato. Probabilmente quell’estate aveva vissuto perennemente in spiaggia.

Sistemandosi la borsa sulla spalla si andò a sedere e, dopo che la professoressa ebbe sistemato il registro, si mise ad ascoltarla annoiata con una guancia poggiata sul palmo della mano ed il gomito puntato sul banco.

Erano le dieci e le prime tre ore erano passate in una noia mortale. Dopo che ebbe suonato la campanella ed il professore di chimica era entrato, vide il ragazzo che le sedeva davanti girarsi verso di lei.

Quegli occhi, quel naso, quel volto, quel tutto lei l’aveva già visto, ma dove?

«Lukas, piacere,» le disse tendendole la mano. Lei lo osservò all’inizio spaesata, ma poi capì: era uno dei ragazzi del bar. «Tu sei quella che l’altro giorno è volata a terra, non è vero?»

Kelsey avrebbe tanto voluto sotterrarsi. Perché diavolo non stava mai attenta quando camminava? Qualche giorno prima stava tornando a casa ed era passata al bar per prendere un gelato. L’aveva mangiato scambiando due chiacchiere con una sua amica ed era uscita. Aveva sceso il gradino ed era caduta come una pera cotta a terra. Si era rialzata e aveva continuato come se niente fosse accaduto.

Poco dopo aveva sentito dei risolini, si era girata e si era accorta che il solito gruppetto di ragazzi la stava guardando e ridevano come matti.

«Giusto, Kelsey,» gli rispose ignorando deliberatamente la mano che le veniva tesa e troncando così quel discorso.

Lukas capì che non era il caso di continuare e si girò verso il professore che intanto stava scrivendo formule su formule alla lavagna.

Il giorno dopo, durante la pausa, Kelsey decise di comprarsi un panino al bar. Entrando notò quel Lukas che stava prendendo posizione assieme agli altri suoi amici. Entrò facendo finta di non averlo visto proprio quando questo alzò la mano in aria per salutarla.

Mentre la ragazza si dirigeva verso il bancone dove c’erano i panini ed i tramezzini, sentì che ridevano tra di loro, probabilmente dell’emerita figura da cavolo che aveva fatto Lukas.

Comprata la sua colazione, si diresse come sempre al parchetto dove si sedette sull’altalena e mangiò. Era arrivata a circa metà panino, quando si sentì toccare un braccio. Represse un urlo di spavento e si voltò. Quando riconobbe chi era stato a farle prendere un accidenti per poco non gli mollò uno schiaffo.

«Scusa se ti ho spaventato. E’ che tutti i giorni te ne vieni qui da sola. Ci stavamo chiedendo se volessi unirti a noi,» le disse il ragazzo.

Era Dominic, un suo altro compagno di classe. Già da subito gli era sembrato simpatico, anche se non vi aveva mai parlato seriamente, se non per qualche cosa riguardante i compiti a casa o in classe. Aveva i capelli castani corti, gli occhi color cioccolato e la carnagione olivastra.

Per un secondo Kelsey ci pensò su e poi decise che alla fine, passare un quarto d’ora in compagnia sua e degli altri, non era poi un’idea così atroce.



Ancora non riusciva a crederci. Quel demente di Lukas era riuscita a portarla in quel luogo dimenticato da Dio, dove a momenti anche il soffitto crollava.

Il ragazzo aprì una porta e dalla parte opposta del corridoio si sentì un tonfo. Kelsey impaurita si aggrappò al suo braccio. «Non è che possiamo tornare indietro?» chiese sperando che l’altro ci ripensasse, invece lo vide scuotere la testa e guardarla divertito.

«Stiamo solo andando ad una lezione di canto, non essere sciocca.»

Era vero. Stavano andando ad una lezione di canto, eppure perché aveva l’impressione che quello non fosse un edificio adatto? Di solito queste scuole si trovavano in posti pubblici, alla luce del sole e non dove sembrava recitassero i riti strane sette. Le finestre non avevano tapparelle e per cui la luce entrava indisturbata, mettendo in evidenza tutta la polvere presente in quel luogo.

«Ho solo una domanda: ma perché la fanno qui e non da una parte più “normale”?» gli chiese cercando di raggiungerlo dato che questo aveva affrettato il passo e l’aveva distanziata di parecchio. Quel giorno indossava una maglietta grigia e dei pantaloncini corti neri. Kelsey si chiedeva se non avesse freddo, ma lui sembrava impassibile.

Dopo che quel giorno l’ebbero invitata al loro tavolino lì al bar, aveva preso l’abitudine di tornarci ogni mercoledì. I ragazzi glielo avevano sempre fatto notare, mai un giorno che non fosse quello. Cosa ci poteva fare se lei era una persona molto abitudinaria? Tuttavia lasciava scivolare via questi commenti senza averli neanche – o per lo meno poco – sentiti.

Una volta era arrivata lì che stavano cantando una canzoncina che la mamma, quando era più piccola, le canticchiava prima di andare a dormire. Si era avvicinata e si era unita a loro mentre la gente che passava lungo la via li guardava come se fossero stati schizofrenici scappati da una casa di cura. Ed era stato in quel momento che Lukas le aveva proposto una cosa del genere e, nonostante non le stesse molto simpatico, aveva accettato.

Adesso invece se ne pentiva. L’amico sembrava a proprio agio, mentre lei era nervosa, più tesa di una corda di violino. Giunsero in un corridoio davvero strano: era completamente rosso, il pavimento più chiaro, mentre le pareti ed il soffitto bordeaux. Sembrava di essere entrati dentro un vero e proprio cuore umano. Vide Lukas fermarsi davanti ad una porta a vetri colorati, fatta a mosaico. Bussò, ma come risposta non ci fu altro che l’eco di quel suono.

«Questa scuola ha sede qui da circa vent’anni e non ha mai cambiato edificio. Nonostante questa parte sembri decadente, dove stiamo andando adesso è stupendo. Siamo passati dal retro noi, l’ingresso principale è dalla parte opposta,» le spiegò ad un tratto facendola quasi sobbalzare.

La ragazza cercò di ricordare a quale domanda stesse rispondendo, ma fallì miseramente e quindi lasciò correre.

Dopo pochi minuti vide un’ombra passare dietro la porta e finalmente la vide aprirsi. Sulla soglia stava una donna che doveva avere circa quarant’anni non di più, con i capelli neri e gli occhi marroni.

«Sei arrivato, Lukas. Pensavamo ti fossi perso per strada! Chi hai portato? E’ la tua ragazza?» chiese quella mentre si portava a poca distanza da Kelsey.

Vide l’altro scuotere la testa e sbuffare. «Lasciala stare, è solo una mia compagna di scuola che sa cantare. Punto. Stop. Quando la smetterai?» e senza aggiungere altro la sorpassò entrando. Quando vide che lei non lo stava seguendo tornò indietro e le prese la mano, tirandosela dietro.

Kelsey stava guardando le mani. Uno strano calore le stava pian piano avvolgendo le guance e la donna che era ancora alla porta se ne accorse.

«La stai mettendo in imbarazzo più tu che io»

«Basta mamma, per favore.»

Kelsey sbarrò gli occhi. Quella era sua madre? Non era assolutamente possibile, non si assomigliavano per niente.

La stanza nella quale erano entrati era decisamente più nuova: a terra il parquet rimbombava leggermente sotto i passi dei due ragazzi e le pareti erano di un celestino chiaro chiaro; al lato destro c’era un enorme scaffale pieno di libri.

Kelsey si avvicinò timidamente, temendo che la madre di Lukas la vedesse e la sgridasse per la sua intraprendenza. Tutto ciò però non avvenne e la ragazza rilasciò un tremolo sospiro di sollievo come passò i polpastrelli sulle copertine ruvide di quei mattoni. Dai loro dorsi spuntavano lettere dorate che lasciavano intendere fosse libri di musica.

La ragazza si figurò quello strano mondo fatto di note e accordi, pentagrammi e quant’altro. Si, quello era decisamente un bellissimo sogno e probabilmente tra poco si sarebbe svegliata di soprassalto ritrovandosi distesa sotto le coperte del suo letto.

Sentì qualcosa tirarle il braccio e risvegliarla dalle sue fantasticherie. Era Lukas che cercava di portarla in un’altra stanza.

«Forza, vieni. Andiamo a vedere la lezione di canto,» e così dicendole le fece un sorriso che gli arrivava fino alle orecchie.

Kelsey rimase a fissarlo come un’ebete.



Le lezioni erano finite ma loro erano rimasti un altro po’ mentre Cameron – come aveva scoperto poi chiamarsi la madre di Lukas – risistemava la stanza che adesso, dopo un’ora, sembrava essere stata oggetto di un conflitto. Kelsey se ne stava seduta in angolo sopra ad un tavolo mentre leggeva un libro che l’aveva colpita sin dall’inizio: parlava della nascita dei pentagrammi. Immaginava quelle enormi pagine contenenti migliaia di righe e di note, talmente alte che lei non ci sarebbe mai arrivata.

«Hai voglia di vedere una cosa?»

Al suono di quella voce alzò gli occhi dalle pagine e vide l’amico, con i capelli tutti fuori posto che la guardava speranzoso. Tuttavia lei era restia: primo voleva finire quel libro e secondo a dirla tutta non si fidava neanche completamente di lui.

«D’accordo.»

La portò in un’enorme stanza dalle pareti immacolate dove al centro si ergeva un bellissimo pianoforte a coda nero. Kelsey vi corse vicino e passò la mano su tutto il contorno dello strumento.

«E’ meraviglioso. Lo sai suonare?» gli chiese poi girandosi verso di lui, il quale era rimasto fermo sulla porta.

«Abbastanza. Vuoi che ti suoni qualcosa?»

E quando la vide annuire si sedette sullo sgabello ed iniziò a suonare.


Note: Dunque, devo assolutamente dire che questo capitolo è stato un parto vero e proprio. Quando avevo voglia di scrivere c'è stato il virus, poi ho riavuto il computer ma non riuscivo a rimanere più di due secondi su word perché poi andavo subito in Internet e per finire da un po' di giorni non mi collegava più ad alcuna pagina.
Spero vi sia piaciuto.
 
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